Blog Single

Può un porto essere “sostenibile”? La sfida della transizione per Trieste

17 Giugno 2022

 Una transizione necessaria, ma difficile. Così si potrebbe sintetizzare il messaggio trasversale ai diversi relatori intervenuti alla tavola rotonda organizzata dalla CEI – Central Europe Initiative, il cui tema era “La transizione ecologica nei porti: scenari, progetti e professioni del futuro“. Mai come nell’ultimo biennio la logistica ha giocato un ruolo chiave nel funzionamento dell’economia, seppur incontrando difficoltà in crescendo: dal blocco del canale di Suez, all’aumento del costo dei noli, alla guerra Ucraina-Russia. La riconversione energetica si pone in tal senso al bivio, in uno snodo geopolitico eccezionalmente delicato; e la questione è se scommettere con ancor maggiore decisione, complici i fondi PNRR, o rinunciare parzialmente agli impegni.
Tra gli esperti di portualità, ambiente e formazione intervenuti ricordiamo il presidente
dell’Autorità di sistema portuale del mare Adriatico Orientale Zeno D’Agostino e il direttore generale dell’Accademia nautica dell’Adriatico Bruno Zvech. Accanto alla transizione, speciale considerazione è stata posta a proposito dell’ambizioso obiettivo di raggiungere la carbon neutrality in ambito portuale in Italia entro il 2050.

L’evento, ha introdotto la rappresentante della CEI Nina Kodeljia, è stato il primo di una serie di seminari di alta formazione, volto ad elaborare una piattaforma di competenze nell’area della transizione verde. Tre le rispettive parole chiave, tra loro interconnesse: formazione, ricerca e innovazione.
Stefano Soriani, professore ordinario di geografia economico-politica presso l’Università Cà Foscari di Venezia, ha esordito ricordando come una parte netta dell’inquinamento venga causato dalle navi; ad esempio corrisponde all’incirca all’80% dell’inquinamento della città di Ravenna. Eppure i porti sono strutture peculiari, alle quali non è possibile applicare le logiche delle infrastrutture “normali”; proprio durante l’ultimo Expo è stato affermato che “quando hai visto un porto, hai visto un porto”.
L’inquinamento climatico rappresenta la preoccupazione maggiore per le autorità portuali; ma rimane importante anche la qualità dell’aria e l’approvvigionamento energetico. Tutte necessità per le quali “il mondo marittimo si sta muovendo in maniera molto forte”.
Soriani ha differenziato l’ambito della mitigazione dell’inquinamento, dove i porti hanno agito con grande decisione per ridurre l’impronta di carbone, da quello dell’adattamento dove “si sta facendo molto meno”. L’adattamento dopotutto richiederebbe di lavorare con un orizzonte temporale di lunghissimo periodo, intorno ai 50 anni; mentre attualmente i porti lavorano al massimo con una scadenza tra i 15 e i 30 anni.
Nel caso dell’Italia manca inoltre totalmente la pianificazione costiera e gli incentivi ecologici per i terminalisti e gli spedizionieri; senza il cui coinvolgimento la transizione rimarrà monca.
Guardando infine alla guerra in Ucraina, è senza dubbio terminato il periodo della “connettività perfetta“, a favore invece di “logiche di sicurezza e sovranità“.
Uno scenario, nell’ambito della transizione, delicato: è in gioco infatti il consolidato ruolo dell’Unione Europea come leader delle politiche ambientali mantenuto da un ventennio.

Dalla teoria generale l’evento si è poi mosso sul fronte dei big data con l’intervento di Giancamillo Marino, Referente FER e Pianificazione energetico-ambientale di NE Nomisma Energia srl, che ha evidenziato che “i mercati energetici hanno superato il picco”, sebbene il carbone rimanga “ai massimi da sempre”, il petrolio in aumento e il gas stazionario.
L’Italia soffre una cronica carenza di produzione interna, col 5% del gas prodotto internamente e il 45% importato direttamente dalla Federazione russa; solo la Germania ne importa di più, ma con una minore dipendenza energetica.
Sotto il profilo della giurisdizione europea, la neutralità carbonica andrà conseguita entro il 2050 e la riduzione delle emissioni nette entro il 2030; in linea generale l’Unione Europea si è comportata correttamente, a confronto con altre macropotenze, considerando che dal 1990 al 2021 abbia ridotto le emissioni di 1 miliardo, a fronte però di un aumento di 13 miliardi operato dal resto del globo. Tutt’oggi rimane l’unico blocco di stati a porsi obiettivi tanto ambiziosi.
L’Italia non fa eccezione, con una robusta crescita delle emissioni tra il 1996 e il 2005, seguita da una decrescita costante; un trend sconnesso dall’economia, perchè dal 2005 in poi si sono verificate crisi e periodi di crescita economica scollegate da un aumento o meno dell’inquinamento. Mentre negli anni Novanta erano le fabbriche la maggiore fonte di emissioni in Italia, nel 2019 sono i trasporti, specie connessi alla logistica, i responsabili.
Nel campo delle energie rinnovabili il settore principale rimane l’idroelettrico, sostanzialmente statico; segue la biomassa e il fotovoltaico, anch’esso stabile dal taglio dei finanziamenti nel 2015.
La penisola, ha rimarcato Marino, è in realtà un paese virtuoso: considerando come il settore manifatturiero sia il secondo d’Europa e come dipenda per il 63% da fonti energetiche esterne, l’Italia è un paese piuttosto “green”. Nell’ambito degli obiettivi del pacchetto 20-20-20 fissato dall’UE l’Italia si pone alle prime posizioni, mentre Francia e Germania arrancano.
Il target 2030 ora mira alla riduzione di oltre la metà (55%) delle emissioni rispetto ai livelli del 1990, sebbene vengano già avanzati seri dubbi considerando i ritardi di molteplici nazioni dell’Unione.

Come si traducono queste dipendenze energetiche e questi obiettivi giuridici per i porti dell’Italia, guardando in particolar modo a Genova e Trieste? Secondo Marino sarà necessario operare sul fronte della pianificazione, sovrapponendo elemento strategico e ambientale; per quanto concerne la produzione di energia FER occorre realizzare impianti di produzione in loco, promuoverne poi la realizzazione di ulteriori nel retroterra portuale e velocizzare la formazione di comunità energetiche. Indispensabile, infine, non trascurare la collaborazione per la decarbonizzazione cogli operatori portuali.

Considerando le criticità della transizione, rimangono da valutare gli impatti occupazionali; saranno necessarie figure nuove, in ambiti sempre più specialistici e tecnici. Ne ha discusso Enrico Morgante, Direttore CFLI Centro Formazione Logistica Intermodale, che ha portato la propria esperienza a proposito della formazione per i green jobs, i cosiddetti “lavori verdi”.
Persiste infatti un profondo “mismatch tra domanda e offerta”, nonostante vi siano “oltre 200mila disoccupati nella regione Veneto”. La richiesta di personale è tale che ormai “è il candidato che guida il mercato del lavoro”; la persona formata in un ambito tecnico quale quello della logistica può dettare le proprie condizioni di lavoro, sempre meno incentrate sulla paga in sé, quanto piuttosto sull’ambiente di lavoro, l’orario, le ferie, il tempo libero.
Il settore intanto continua a produrre nuove figure professionali; le ultime proposte dal CFLI erano il “recycling and green logistics manager” e il tecnico ambientale, dai corsi capaci di fornire competenze altamente richieste sul mercato.

Il punto di incontro tra formazione, transizione ecologica e ambito portuale è stato infine personificato dalla figura di Bruno Zvech, Direttore generale presso l’ITS Accademia nautica dell’Adriatico. Zvech, seppur concordando con la valutazione di Morgante, ha asserito che “ci saranno costi sociali molto forti per la transizione ecologica” il che pone l’interrogativo se “la sostenibilità è sostenibile?”.
“Siamo infatti pienamente nella terza rivoluzione industriale” – ha osservato il direttore, all’insegna di “mobilità e sostenibilità”. Accanto alle difficoltà tecniche nella transizione, connesse alla guerra in Ucraina, rimangono anche “ragioni demografiche“. Vi sono meno lavoratori per tanti settori, perchè banalmente vi sono meno giovani; green jobscompresi.
Nell’ambito dell’Accademia, il settore del futuro è “l’infrastruttura informativa di alta gamma al servizio del clusterportuale”. I principali settori di riferimento dell’ITS sono la formazione rispettivamente di ufficiali e ufficiali di macchina, a cui si andranno ad affiancare ufficiali elettronici ed elettrotecnici; ambiti per i quali l’Accademia accoglie una notevole percentuale di studenti fuori Regione. Il percorso rimane però eccessivamente rigido, troppo burocratico; specie a causa della formazione delle scuole Superiori. Accanto all’elemento prettamente marittimo rimane molto richiesta la formazione dei macchinisti ferroviari, mentre nel futuro occorrerà valutare con attenzione i cambiamenti del settore dell’automotive, profondamente mutato dalla crisi Covid e dall’introduzione dell’automobile elettrica.

 

Condividi:
[miniorange_social_login shape="square" theme="default" space="4" size="35"]